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Articoli sulle Leggende Siciliane
La leggenda
di Aci e Galatea
Tale leggenda ha un’origine greca e
spiega la ricchezza di sorgenti d’acqua dolce nella zona etnea.
Aci era un pastorello che viveva
lungo i pendii dell’Etna.
Galatea, che aveva respinto le
proposte amorose di Poliremo, lo amava. Poliremo, offeso per il
rifiuto della ragazza, uccide il suo rivale nella
speranza di conquistare la sua amata. Ma Galatea continua ad amare
Aci.
Nereide, grazie all’aiuto degli
dèi, trasforma il corpo morto di Aci in sorgenti d’acqua dolce che
scivolano lungo i pendii dell’Etna.
Non lontano dalla costa, vicino
l’attuale Capo Molini, esiste una piccola sorgente chiamata dagli
abitanti del luogo "il sangue di Aci" per il suo
colore rossastro.
Sempre nei pressi di Capo Molini
esisteva un modesto villaggio chiamato, in memoria del pastorello,
Aci.
Nell’undicesimo secolo dopo Cristo
un terremoto distrusse il villaggio, provocando l’esodo dei
sopravvissuti che fondarono altri centri. In ricordo della loro
città d’origine, i profughi vollero chiamare i nuovi centri col nome
di Aci al quale fu aggiunto un appellativo per distinguere un
villaggio dall’altro. Si spiega così, ad esempio, l’esistenza di Aci
Castello (appellativo dovuto alla presenza di un castello costruito
su di un faraglione che poi fu distrutto da una colata lavica nell’XI
secolo) ed Acitrezza (la cittadina dei tre faraglioni). |
Il castagno
dei cento cavalli
Celebre per le sue dimensioni è in
Sicilia il "castagno dei cento cavalli" situato sulle pendici
dell'Etna, nel territorio di Sant'Alfio.
Si narra che, nel XVI secolo,
Giovanna d'Aragona, sorpresa da un temporale mentre si stava recando
a Napoli proveniente dalla Spagna, trovò riparo con tutto il
seguito, composto di cento cavalieri, sotto le fronde del grande
castagno.
Sebbene il tronco principale sia
bruciato nel 1923, quel castagno appare ancora gigantesco: i suoi
attuali quattro polloni hanno una circonferenza complessiva di 50
metri. |
Artù
nell'Etna
Lo Re Artù k'avemo
perduto
Cavalieri siamo di Bretagna
ke vegnamo de la montagna
ke l'omo appella Mongibello.
Assai vi semo stati ad ostello
per apparare ed invenire
la veritade di nostro sire
lo Re Artù, k'avemo perduto
e non sapemo ke sia venuto.
Or ne torniamo in nostra terra
ne lo reame d'Inghilterra
La poesia, e’ di un autore
duecentesco noto come Gatto Lupesco,un nome piuttosto pittoresco che
ricordera’ da vicino altre simbologie in italia , legate al mitico
rex. La leggenda di Artù nell'Etna è riportata anche negli Otia
Imperialia dell'inglese Gervase di Tilbury (XII secolo), il quale
l'aveva appresa sul luogo intorno al 1190. |
La storia
della Fata Morgana
La leggenda ci tramanda che, dopo
aver condotto suo fratello Artù ai piedi dell'Etna, Morgana si
trasferisce in Sicilia tra l'Etna e lo stretto di Messina, dove i
marinai non si avvicinano a causa delle forti tempeste, e si
costruisce un palazzo di cristallo.
Sempre in base alla leggenda,
Morgana esce dall'acqua con un cocchio tirato da sette cavalli e
getta nell'acqua tre sassi, il mare diventa di cristallo e riflette
immagini di città.
Grazie alle sue abilità, la Fata
Morgana riesce ad ingannare il navigante che, illuso dal movimento
dei castelli aerei, crede di approdare a Messina o a Reggio, ma in
realtà naufraga nelle braccia della fata.
La Fata Morgana in realtà non è
altro che un fenomeno ottico che si ammira spesso nello stretto di
Messina e nell'isola di Favignana a causa di particolari condizioni
atmosferiche. Guardando da Messina verso la Calabria, si vede come
sospesa nell'aria l'immagine di Messina e, viceversa, guardando da
Reggio Calabria verso Capo Peloro, si vede nello stretto Reggio.
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La leggenda
del gigante Tifeo
E’ la leggenda che stabilisce che
la Sicilia è sorretta dal gigante Tifeo che, osando impadronirsi
della sede celeste, fu condannato a questo supplizio.
Con la mano destra sorregge Peloro
(Messina), con la sinistra Pachino, Lilibeo (Trapani) poggia sulle
sue gambe e sulla sua testa l'Etna. Tifeo vomita fiamme dalla bocca.
Quando cerca di liberarsi dal peso delle città e delle grandi
montagne la terra trema. |
La leggenda
del cavallo senza testa
Nasce nella Catania del 700.
Leggenda ambientata nella Via Crociferi ed in passato residenza di
nobili che vi tenevano i loro notturni incontri o intrighi amorosi
che dovevano esser tenuti nascosti. Quindi, essi fecero circolare la
voce che di notte vagasse un cavallo senza testa, voce che intimorì
la cittadinanza ed impediva alle persone di uscire di casa una volta
calate le tenebre. Soltanto un giovane scommise con i suoi amici che
ci sarebbe andato nel cuore della notte, e, per provarlo, avrebbe
piantato un grosso chiodo sotto l’Arco delle Monache Benedettine.
Gli amici accettarono la scommessa ed il giovane si recò a
mezzanotte sotto l’arco delle monache, e vi piantò il chiodo ma non
si accorse di avere attaccato al muro anche un lembo del suo
mantello, quindi, quando volle scendere dalla scala, fu impedito nei
movimenti e, credendo d’esser stato afferrato dal cavallo senza
testa, morì. Pur vincendo la scommessa, la leggenda fu confermata. |
La leggenda di Pippa la
catanese
Popolana e lavandaia d’origine
catanese, visse a cavallo tra il XIII e il XIV secolo. Il suo
vero nome era Filippa. Giovanissima, diventa nutrice di Luigi,
figlio di Roberto d’Angiò e Violante d’Aragona. Allorché gli
Angioini furono cacciati dalla Sicilia e ritornarono a Napoli,
Pippa seguì la Corte. Nel 1343 sul trono salì Giovanna I d’Angiò
che aveva sposato il principe Andrea d’Ungheria che volle essere
consacrato re di Napoli. I numerosi dissidenti facevano
affidamento sull’antipatia che la sovrana, innamorata del cugino
Luigi duca di Taranto, nutriva per il marito contro il quale fu
ordita una congiura; in effetti, Andrea fu strangolato. Il Papa,
supremo signore feudale sul Regno di Napoli, cominciò la caccia
dei congiurati; la prima ad essere indiziata fu Pippa che era
diventata confidente della Regina. L’ex lavandaia fu atrocemente
torturata, per farle confessare quanto sapeva e la donna disse
solo di sapere della congiura ma di non avervi partecipato.
Coloro che avevano assassinato Andrea restarono impuniti.
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La pantofola della regina
Elisabetta
Maletto è in provincia di Catania.
Quando nel 1603 i diavoli gettarono la regina dentro il cratere
dell’Etna sulla rupe "Rocca Calanna" cadde una pantofola della
regina Elisabetta.
Molto tempo dopo,
un pastorello ritrova tale pantofola, la volle toccare, ma si
bruciò.
Fu chiamato un
frate esorcista e la pantofola volò su una torre del castello di
Maniace, presso Bronte.
Nel 1799 tale
castello fu donato dai Borbone all’ammiraglio inglese Orazio
Nelson, durante una festa da ballo a Palermo. In quell’occasione
una dama misteriosa, si dice il fantasma della regina
Elisabetta, donò a Nelson un cofanetto contenente la fatidica
pantofola; e gli raccomandò di non farla mai vedere a nessuno.
Ma l’amante
dell’ammiraglio, Emma Hamilton, riesce a trafugarla. La stessa
notte l’ammiraglio vede in sogno la misteriosa dama che gli
ricorda che ha perso tutta la sua nfortuna. Pochi giorni dopo
Nelson morì nella battaglia di Trafalgar, esattamente il 21
ottobre 1805.
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U Liotru
- l ’elefante di Catania
Il simbolo di Catania dal 1239 è
legato ad un’antica leggenda legata alla sua origine. Questa
leggenda narra che quando Catania fu abitata per la prima volta,
tutti gli animali feroci furono allontanati da un elefante al quale
i catanesi, per ringraziamento, eressero una statua, da loro
chiamata “liotru”, correzione dialettale del nome Elidoro, un dotto
catanese dell’VIII secolo bruciato vivo nel 778 dal vescovo di
Catania San Leone II il Taumaturgo, perché, non essendo designato
vescovo della città, disturbava le funzioni sacre con magie, tra cui
quella di far camminare l’elefante di pietra.
Diverse ipotesi sono state fatte
per spiegare l’origine e il significato di tale statua, oggi
visibile in Piazza Duomo.
Di queste ipotesi, due sono
meritevoli di menzione:
-
quella dello storico Pietro
Carrera da Militello che lo spiegò come simbolo di una vittoria
militare dei catanesi sui libici;
-
quella del geografo arabo
Idrisi nel XII secolo secondo la quale l’elefante è una statua
magica costruito in epoca bizantina per allontanare da Catania
le offese dell’Etna.
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Pietra del mal consiglio
Ricorda gli eventi
legati alla morte di Ferdinando il Cattolico (23 gennaio 1516),
quando il viceré Ugo Moncada rifiutò di lasciare la carica e
scatenò una guerra civile partì da Palermo e che funestò la
Sicilia per tre anni. A Catania, dove la rivolta aveva numerosi
seguaci, i nobili ribelli scelsero per le loro riunioni un
giardino nel piano dei Trascini vicino un capitello dorico e un
pezzo di architrave, entrambi in pietra lavica.La lotta continuò
finche i fautori del Moncada non furono sconfitti. Il nuovo
viceré, Ettore Pignatelli, stroncò le ribellioni colpendo
direttamente e ferocemente i responabili. Il Senato della città,
a ricordo di questi avvenimenti, spostò i due avanzi lavici: il
capitello, da allora chiamato "Pietra del mal consiglio" fu
innalzato nel piano della Fiera (oggi Piazza Università) mentre
l’architrave fu sistemata all’ingresso del palazzo della Loggia.
La pietra del mal consiglio nel 1872 fu posta nella corte del
Palazzo Carcaci ai Quattro canti. L’architrave si trova nel
cortiletto posteriore del teatro Massimo Bellini.
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La grotta
delle Palombe o delle Colombe
La Grotta delle Colombe si trova a
Santa Maria La Scala (frazione di Acireale, in provincia di Catania)
e raccoglie due leggende. In base alla prima tale
grotta era il rifugio segreto dei due innamorati Aci e Galatea.
L'altra racconta la storia della ninfa Ionia che curava dei colombi
che ogni inverno si rifugiavano in questa grotta. Purtroppo altre
ninfe invidiose ne ostruirono l'entrata facendo morire i colombi e
suscitando la disperazione della ninfa che fece crollare la grotta
rimanendo seppellita insieme ai suoi amici. |
Il terremoto
del 1693
A questo cataclisma sono legate due
leggende catanesi: quella di "Don Arcaloro" e quella del vescovo
Carafa.
La prima narra che nella mattina
del 10 gennaio 1693 si presentò al palazzo del barone catanese Don
Arcaloro Scamacca una fattucchiera locale che gridò a
Don Arcaloro di affacciarsi perché gli doveva dire una cosa di
grande importanza. Don Arcolaio ordinò che la facessero salire. La
vecchia strega confidò al barone che quella notte aveva sognato
Sant’Agata che supplicava il Signore di salvare la sua città dal
terremoto, ma il Signore a causa dei peccati dei catanesi rifiutò la
grazia. Il Barone si rifugiò in aperta campagna, dove attese che la
profezia della strega si verificasse.
Un vecchio quadro settecentesco di
Salvatore Lo Presti rappresenta il barone con l’orologio in mano in
attesa dell’evento.
La seconda leggenda è quella del
vescovo di Catania Francesco Carafa, capo della diocesi dal 1687 al
1692. La leggenda dice che questo vescovo, mediante
le sue preghiere, era riuscito per ben due volte a tenere lontano
dalla sua città il terremoto. Ma nel 1692 egli morì e l’anno dopo
Catania fu distrutta.
L’iscrizione posta sul suo sepolcro ricorda proprio tale evento ed
il ruolo incisivo delle sue preghiere |
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